14 anni campionessa olimpica: “sopravvivere” al successo.

di Silvia Console

Siamo abituati a vederle volteggiare in body scintillanti, le loro evoluzioni sono un concentrato di potenza e leggerezza al tempo stesso. La ginnastica artistica non è solo la bella coreografia o il salto perfetto; sono ore e ore di allenamenti, cadute, calli alle mani e lacrime; a volte di gioia e a volte no.

Ovviamente questo vale per tutte le discipline sportive, ma nella ginnastica c’è un elemento in più che mi ha portato a voler condividere questa riflessione: l’età.

Dal 1997 l’età minima per partecipare a una Olimpiade è 16 anni (quest’anno, a causa dello slittamento di Tokyo 2020, verranno ammesse anche le atlete nate nel 2005).

Ma quando Nadia Comaneci stupì il mondo con il suo 10 perfetto, che le valse l’oro olimpico ai giochi di Montreal nel 1976, aveva solo 14 anni e come lei stessa affermò diversi anni dopo “E’ stato un bene che fossi ancora una bambina, perché non mi rendevo conto di tutto ciò che viene con il successo.”

Quindi mi chiedo: quanto costa il successo quando si è atleti così giovani?

Nei giorni scorsi mi sono imbattuta in un’intervista a Simon Biles che pochi giorni fa ha compiuto 21 anni, 10 dei quali da campionessa nazionale, mondiale e Olimpionica.

Come la maggior parte delle campionesse che brillano e che hanno brillato in questo sport, anche per lei le porte del centro sportivo si sono aperte all’età di 6 anni. La storia di Simon, particolarmente triste per via dei trascorsi familiari è però più meno la stessa di tante altre giovanissime atlete: iniziano le prime esibizioni, poi gare, fino a 36 ore di allenamento settimanale. Nel frattempo però c’è la scuola, gli amici, e i genitori. Ci sono anche tutte le ansie e i cambiamenti che attraversano il corpo di un’adolescente e perfino gli haters. I cosiddetti “leoni da tastiera”, gente che riversa odio sul web per nutrire la propria autostima.

Anche una campionessa come Simon Biles ha subito la ferocia del bodyshaming. Lo racconta lei stessa quando viene intervistata:

“Si concentrano sui miei capelli o su quanto siano grandi le mie gambe. Ma Dio mi ha fatto così e sento che se non avessi queste gambe o questi polpacci, non sarei in grado di volare più in alto che posso e realizzare quei salti e quelle figure che ora portano il mio nome”.

E alle ragazze dice: “Non importa quanto tu sia bravo nel tuo sport, nella vita, nel tuo lavoro, la cosa principale di cui la gente parla è come appari. Ma il modo migliore per gestire questa pressione è ignorarla”.

Simone Biles è anche diventata portavoce di “Beauty is #nocompetition” una campagna di sensibilizzazione a favore della valutazione della performance dell’atleta, a prescindere dalla sua bellezza fisica.

Ma tornando al titolo dell’articolo, è importante anche pensare a quante giovani atlete abbandonano il sogno di diventare una campionessa. I motivi possono essere tanti, o ” semplicemente non ce la fai a sopportare infortuni, rinunce e lacrime”

Così scrive l’ex ginnasta Giulia Leni nel suo libro Alla fine è rimasto solo un sogno:

“È vero che nella ginnastica, e penso anche nello sport a livello agonistico in generale, si piange un sacco. Piangi perché non ti viene una cosa, e l’allenatore ha insistito sulle sue correzioni, ma comunque non ti viene, ed è frustrante. Piangi perché hai 15, 16 anni, e stai rinunciando a molto, e a giorni alterni non sei nemmeno sicuro del motivo per cui lo stai facendo. Molti sabati mattina mi ritrovavo in palestra alle otto e mezza a pensare ma io cosa ci faccio qui. Piangi perché non puoi fare altro che quello che ti viene detto. Ti manca casa anche se vuoi fare l’adulto. Perché magari—non nel mio caso, ma ne ho conosciute tante, la spinta iniziale non è tua ma dei genitori”.

Nella foto: Giulia Leni,bronzo dietro le olimpioniche americane

In conclusione, penso che dovremmo tutti avere molto rispetto verso chi cerca di fare della propria vita un capolavoro ma anche di chi ha provato, con tutte le sue forze, ma non c’è riuscito.