Le grandi lotte, quando lo sport si fa portavoce dei diritti umani Parte I
di Annamaria MangiacasaleAttualità08 Gennaio 2022 - 07:20
Alcuni sportivi ci insegnano come essere campioni, non significhi soltanto vincere una medaglia o battere un record, ma far sì che lo sport, si faccia portavoce dei più alti diritti umani. Non sempre i rivali contro cui dobbiamo confrontarci, infatti, hanno un volto reale: discriminazioni razziali, sessuali, politiche; infortuni gravi e malattie; regole e tradizioni obsolete sono avversari invisibili e subdoli.
Il 16 Ottobre del 1968, allo Stadio Olimpico di Città del Messico, il fotografo John Dominis scatta una foto che diventerà simbolo di un decennio di proteste per i diritti civili dei neri. I velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos arrivarono primo e terzo nella finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi; secondo l’australiano Peter Norman. Dopo essere saliti sul podio e aver ricevuto le medaglie, si girarono verso l’enorme bandiera statunitense appesa sopra gli spalti e al risuonare delle prime note dell’inno, abbassarono la testa e alzarono un pugno chiuso indossando dei guanti neri. Per rappresentare la povertà degli afro americani, si presentarono con delle calze nere ai piedi e delle collane dai colori africani per ricordare i neri impiccati e linciati nel corso dei secoli a causa della discriminazione. I due atleti pensavano e coltivavano un sogno che andava oltre le piste d’atletica: la battaglia civile per i diritti degli afro americani raggiungeva in quegli anni il suo apice e il pugno chiuso di Tommie e John arriva sei mesi dopo l’assassinio di M. L. King, durante gli anni della guerra in Vietnam. Vogliono più diritti per le persone di colore e prima di partire per le Olimpiadi, aderirono al Progetto Olimpico per i Diritti Umani, minacciando di non partecipare se le loro richieste non fossero state esaudite. I risultati non furono quelli sperati, ma Tommie e John, nel cuore, non abbandonarono la propria lotta. Quando tornarono a casa videro tutti voltargli le spalle, nessuno voleva essere accomunato ai ribelli che non avevano rispettato la bandiera; per lunghi anni vissero in povertà, dimenticati, cancellati. Solo il tempo gli darà ragione: i ragazzi neri entreranno nelle Università con gli stessi diritti dei bianchi, finchè nel 2008 un ex studente nero, Barack Obama, diventerà Presidente degli USA. L’influenza del gesto dei due atleti è percepibile ancora oggi, ad esempio nel gesto dei giocatori afroamericani di football inginocchiati durante l’inno .
Se tutti ricordano i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos, grazie ad un’immagine che è stata riprodotta su murales, t shirt, libri e poster, pochissimi rammentano le imprese atletiche e il clamoroso gesto di una donna cecoslovacca di nome Věra Čáslavská. Si tratta di una delle più grandi ginnaste di tutti i tempi: 7 ori olimpici, 4 argenti; per quattro anni, tra il 1964 e il 1968, rimane imbattuta nel concorso individuale. Nel 1968 viene nominata la seconda donna più popolare dopo J. Kennedy. Pochi mesi prima delle Olimpiadi la Cecoslovacchia insorge contro il regime dell’Unione Sovietica, Vera si schiera a favore delle riforme liberali e firma il manifesto anticomunista “Duemila Parole”. Quando la Primavera di Praga finisce nella repressione e i sogni di cambiamento vengono spazzati dai cingolati, le cose per i dissidenti e per Vera peggiorano rapidamente. Così mentre le avversarie russe sono già in Messico ad allenarsi come macchine da guerra, lei si nasconde in un cottage tra gli alberi della Moravia, dove si allena sollevando sacchi di patate, appendendosi agli alberi, volteggiando sul prato davanti casa e spalando carbone per farsi venire i calli alle mani. Quando finalmente arriva l’autorizzazione a poter partecipare alle Olimpiadi, Vera parte per il Messico e, pur non avendo fatto allenamenti specifici per il clima d’altura, infila una serie di successi, uno dietro l’altro. Alla gara più importante, quella del corpo libero, Vera si esibisce sulle note di una canzone messicana vincendo l’oro. I giudici, però pressati dai russi, modificano il voto delle qualificazioni della seconda classificata, la russa Larisa Petrik, che si ritrova a vincere l’oro a pari merito con Vera. Sul podio, all’intonare dell’inno russo, quando tutte le telecamere sono puntate sulle due atlete vincitrici, Vera abbassa la testa, senza guardare la bandiera con la falce e martello, quella bandiera che schiaccia il suo popolo. Una protesta muta, di dolorosa grazia, rappresentazione visiva di un dissenso.
Il suo gesto però fa rumore quanto i pugni alzati di Smith e Carlos. Tornata a Praga, viene messa subito sotto indagine e bandita da tutte le competizioni; finisce nell’anonimato, facendo pulizie di scale e portoni. Cade in depressione e sceglie di scomparire in una casa di cura. Solo tra gli anni Novanta e Duemila viene riabilitata, diventando presidente del Comitato Olimpico della Cecoslovacchia e quello sguardo abbassato diventerà il simbolo di chi non si piega mai.