Il metodo Mazzanti e quel “time-out” vincente

di Alessandra Puglisi

27 settembre 2021, è mezzogiorno e al Quirinale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella celebra i recenti trionfi europei delle Nazionali di volley. Tocca parlare a Davide Mazzanti, c.t. della Nazionale femminile. Il suo discorso è spiazzante, lontano da autocelebrazione e trionfalismo. Nel momento di massima gloria non esalta la splendida vittoria sua e delle sue ragazze, ma in maniera appassionata spiega come “successo e sconfitta siano figli della stessa identica fatica, passione e desiderio”. Un discorso alto, inclusivo, rivolto a tutti indistintamente, non solo a coloro che amano la pallavolo o lo sport.

Nella visione comune, solo chi vince è un eroe e chi perde è un fallito o un’idiota, ma nello sport, che dovrebbe essere un efficace metafora di vita, non è così, non è tutto bianco e nero. Mazzanti definisce lo sport “la tavolozza dei grigi”, dove tutto ciò che accade “è imponderabile, è affascinante, è doloroso, è stressante ed è unico, ed è anche lo specchio di quello che ognuno di noi vive quotidianamente sul lavoro, con gli amici, in amore, nella propria comunità”.

Il c.t. aveva preparato il discorso prima ancora di giocare Olimpiadi ed Europei, pensandolo a prescindere da qualsiasi medaglia si sarebbe messo al collo in quelle competizioni e da qualsiasi eventuale esito sfavorevole. Non c’è dunque retorica o falsa modestia, ma un flusso di solide convinzioni che informano la visione del gioco e dello sport del nostro tecnico.

Il punto centrale è che il confine tra vincere e perdere è spesso molto labile ed è generato da parti piccolissime, da dettagli. Ed è proprio sui dettagli che Mazzanti dice di essersi focalizzato per trasformare l’insuccesso olimpico nella vittoria europea.

Lo scorso 4 agosto la nostra nazionale viene eliminata dai Giochi di Tokyo ai quarti, ad opera della nostra bestia nera, la Serbia. La formazione di Mazzanti era considerata un punto di forza della spedizione azzurra e su di essa era concentrata una forte attenzione mediatica. Una risonante delusione, ma l’Europeo è già alle porte, distante appena 14 giorni. A fronte di tanto clamore e contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, Mazzanti si limita ad apportare alcuni aggiustamenti tecnici e a ridefinire le gerarchie. Per il resto, a suo dire, si impegna a essere più direttivo e a usare poche parole, evitando di ripetere quelle pronunciate nel pre-olimpiadi che avrebbero toccato ferite ancora aperte.

Di fatto, il tecnico marchigiano tratta il pochissimo tempo a disposizione tra una competizione e un’altra come una sorta di lungo “Time-out”.

Una pausa dal gioco durante la quale, secondo lui, l’allenatore deve guardare alla responsabilità senza generare sensi di colpa, una pausa in cui le cose da dire non devono essere tante, una pausa in cui le parole vanno selezionate e focalizzate su ciò che serve, solo su quello che al momento sembra più efficace, una pausa in cui l’allenatore deve essere il primo a ricordare di restare fedele alla propria identità di squadra. L’identità è intesa come consapevolezza di come possa giocare il gruppo, anche in modo ambizioso, e di quali siano i propri punti di forza. L’identità, una volta consolidata, è ciò che può consentire di battere l’avversario. L’idea di gestire i momenti di difficoltà con poche parole e poche indicazioni mirate si accompagna dunque con la forte convinzione di dover rimanere sempre fedeli a sé stessi. Per illustrare l’importanza di questo concetto Mazzanti ricorre spesso all’impresa del funambolo francese Philippe Petit, che camminò su un cavo sospeso tra le Torri Gemelle a 400 metri di altezza, e che in seguito scrisse a tal proposito: “L’unica incertezza nel cadere era equilibrata dalla certezza di poter esprimere me stesso”, quindi la paura di fallire era compensata, tenuta in equilibrio, dalla voglia di rimanere ancorati alla propria identità. La storia di Petit racconta di un’impresa di talento, follia e metodo, che sono per Davide Mazzanti i pilastri portanti per mettere gli atleti nella condizione di esprimere al massimo la propria performance e per portarli a eccellere.

Talento e follia sono elementi propri di un giocatore, che l’allenatore non può creare, ma solo ascoltare e al massimo aiutare a sfruttare. Il talento è l’insieme delle capacità fisiche, tecniche e psicologiche, che soltanto il lavoro fa emergere. La follia è la capacità di elevare la prestazione oltre il talento, in maniera creativa, cioè pescando da risorse sconosciute e percorrendo strade nuove. Il metodo è, invece, “un principio ordinatore” mediante il quale si organizzano esperienze e capacità per sfruttarle nelle esigenze di gioco e per rendere la performance quanto più stabile possibile. In questa personale visione, il c.t. della Nazionale ritiene che un folle sia sempre motivato e che la motivazione risieda nella follia di godersi il percorso, dove quello che otteniamo è solo una conseguenza. La motivazione è amore per ciò che fai, è qualcosa di profondo che nasce dai sogni e dai desideri. C’è differenza: “I sogni sono qualcosa che ti gratificano quando li realizzi, i desideri qualcosa che ti soddisfa nel momento in cui la vivi”.

Mazzanti è rimasto sempre coerente a questi suoi principi di coaching sia nella vittoria che nella sconfitta, consapevole che la gioia per un successo e il rammarico per un insuccesso hanno breve durata, ciò che rimane sono le emozioni vissute nel percorso. Percorso, che si vinca o si perda, è fatto sempre della stessa quantità di follia e di metodo, oltre che di talento. Le emozioni vissute nel percorso “ci mettono a ritmo con ciò che accade” e ci fanno immergere nel presente, facendoci scivolare addosso errori, frustrazioni e delusioni passate. Ecco perché il suo discorso al Quirinale ha come chiusa un messaggio di speranza, ovvero che accanto agli allori della vittoria ci sia sempre considerazione per ciò che si è fatto lungo il percorso e di cui si deve godere e sentir fieri al di là del risultato: “in una grande estate tricolore se c’è un messaggio che vale davvero la pena condividere, è la speranza che le medaglie e i successi ci aiutino a creare un mondo in cui la gratitudine e il rispetto non svaniscano al di là del lato dove cadrà l’ultima palla”.