Rugby, la lezione di Aaron Smith, quando un secondo posto non è tragedia

di Edoardo Ullo

Un punto. La sottile differenza tra la vittoria e la sconfitta. A tutti i livelli. Che si tratti del torneo amatoriale, delle competizioni olimpiche o della Coppa del Mondo di qualunque sport professionistico.

Lo sanno bene le nazionali di Sudafrica e Nuova Zelanda che ieri sera hanno dato vita alla finale di Coppa del Mondo di rugby a Parigi vinta dagli Springboks per 12-11 sugli All Blacks.

Una partita che ha decretato il successo per la seconda edizione consecutiva del Sudafrica al quarto titolo iridato.
Un match drammatico e spettacolare con una sola meta, quella segnata da Beauden Barrett. Una meta per lui e per la sua Nuova Zelanda inutile ai fini della vittoria che ha sorriso al Sudafrica.

La lezione di Aaron Smith

Al fischio finale, dopo una battaglia di 80 minuti la classica contrapposizione: da un lato la festa dei vincitori, ma senza eccessi; dall’altro la delusione, anche qui senza eccessi, degli All Blacks.

Squadre separate ma unite nei saluti finali tra tutti i protagonisti in campo ed in panchina. Vincitori e sconfitti uniti subito dopo perché l’etichetta del rugby (e dello sport, almeno così dovrebbe essere) impone questo.

Ma più che una imposizione è un vero e proprio dato di fatto: salutarsi a fine partita e parlare del più e del meno, magari abbracciati nonostante il colore diverso di maglia è la normalità nel rugby. Lo sport del resto ha questa funzione.

Sul palco della premiazione allestito in mezzo al manto erboso dello Stade de France di Parigi, teatro della finalissima iridata, i primi ad essere premiati sono gli All Blacks per ricevere la medaglia d’argento.

Tutti stringono mani e ricevano la medaglia da Emmanuel Macron, il presidente della Repubblica francese. Qualcuno si presenta con i figli ed è festa per loro. La sconfitta non li tocca, non è nei loro pensieri. Loro sono felici con il papà che viene premiato.

Tra gli All Blacks c’è anche Aaron Smith che, come tutti i rugbisti, dà una lezione di sportività a tutti accettando la sconfitta sul campo, ritirando la medaglia d’argento e giocando col figlio come se nulla fosse in mezzo a quel campo che poco prima lo aveva visto tra i protagonisti lottare come un leone per portare il mondiale dalla parte dei suoi.

Perché sa di aver dato il massimo, di non avere rimpianti. Ed è emblematica la sua foto che si allontana dalla coppa del Mondo. Per lui, infatti, alla soglia dei 35 anni e dopo 125 apparizioni è la partita di congedo con la maglia della sua Nazionale al terzo mondiale dopo aver vinto l’edizione 2015 ed aver conquistato il bronzo nel 2019. Arriva un argento. Amaro, sicuramente ma certamente prezioso.

L’immagine è il simbolo di una sconfitta che però non è una tragedia. Rimane solo una sconfitta sul campo. Ricorda, per certi versi ma per motivi differenti, quella di Zidane espulso dopo la testata a Materazzi nella finale della Coppa del Mondo di calcio tra Francia ed Italia a Berlino del 2006 vinta poi ai rigori dagli Azzurri. Ma quella era una uscita mesta, una sconfitta prima sportiva (per il brutto gesto) e poi sportiva (sarebbe maturata qualche minuto dopo dagli 11 metri).

La lezione di sportività

Ma è in generale tutta la nazionale neozelandese a dare una lezione di sportività preziosa. Accontentarsi del secondo posto ad una competizione internazionale che per quanto amaro sia è un grande risultato sembra essere ormai difficile. Nel calcio l’esempio è lampante: ricordiamo tutti la Nazionale inglese sfilare mestamente e quasi rifiutare la medaglia d’argento al collo agli ultimi Europei di calcio.

Non è inusuale che nel rugby capiti una cosa del genere. C’è il famoso terzo tempo che unisce le due squadre. Un rituale imprescindibile, marchio di fabbrica di questo sport. E’ capitato tante volte che al termine di un mondiale vincitori e sconfitti parlassero serenamente in mezzo al campo e figli al seguito. Un gesto normale ma di rara bellezza pur nella sua semplicità.

Il fair play che dovrebbe essere innato e non imposto ieri sera si è mostrato in tutta la sua naturalezza. E non si parli di tensione perché perdere la finale di Coppa del Mondo per un punto brucia dannatamente. Ma del resto… non sempre si può vincere.