Che generazione fortunata, la nostra! Abbiamo goduto, forse non troppo inconsapevolmente, l’epoca d’oro del calcio, di tante gesta di campioni che hanno scandito i nostri anni tra un mondiale e un altro, tra una Coppa dei Campioni e una coppa Uefa. Uomini, prima, campioni dopo. Sul campo, su ogni campo, anche in quello della vita oltre il rettangolo verde. È andato via un altro mito del calcio, e se la Germania è diventata una potenza calcistica gran parte del merito è di Franz Beckenbauer che ieri dopo una lunga malattia ha lasciato il campo sportivo della vita per andare nella “tribuna Celeste”, dove troverà tanti amici. A partire da quel Cruijff con il quale creò un’icona immortale nel campionato del mondo del 1974, e poi Pele, Burgnich, Facchetti, Maradona e tanti altri.
Un ragazzo di oggi, forse, si chiederà chi è stato Franz Beckenbauer? Impegno difficile per noi spiegarlo, titanico invece saper trasmettere quelle emozioni. Stile unico, libero di essere ‘non solo libero’, falcata riconoscibilissima, lenta ma decisa, come un pensatore davanti agli scacchi, pochi passi, testa alta, visione del gioco, lancio. Facile a scriversi, difficile a farsi. Lui ci riuscì, addirittura creando il ruolo del libero che che negli anni ’60 in pochi conoscevano e che lui seppe iconizzare con il suo nome, anzi con il suo soprannome: il Kaiser. E dopo, ogni altro campione in quel ruolo bisognava misurarlo a Franz: Scirea, Baresi, sembravano dei Beckenbauer; più forti o meno, andavano paragonati a lui.
Facile parlare in questi casi di trionfi, non la stessa cosa parlare di sconfitte. E allora per sgombrare ogni equivoco, ricordiamo subito le sue vittorie con la maglia della Germania Ovest nel campionato europeo ’72, che fu l’inizio della lunga catena di trionfi. E poi il mondiale 1974, e quindi da allenatore la vittoria a Roma nel 1990 nella notte più stellare tra quelle delle notti magiche italiane. Eppoi con la maglia del suo Bayern (tre volte in cima sul tetto d’Europa con la Coppa dei Campioni conquistata nel 1974, 1975, 1976). Parlare di sole vittorie, però, nel caso di questi grandi calciatori, può essere fuorviante, addirittura, incredibilmente riduttivo. Insomma, quasi un limite alla creazione del mito. Ebbene sì! Bisogna anche e soprattutto “umanizzare” le sconfitte, quelle cocenti, drammatiche che determinano poi la risalita, la rinascita, la rivincita con la vita e con la storia.
Chi sa di un Franz Beckenbauer centrocampista al Mondiale inglese del 1966, realizzatore di ben 4 reti e miglior giovane del torneo? Certo, oggi è molto più probabile vedere le foto di copertina che ricordano Franz Beckenbaur alzare al cielo la Coppa del mondo vinta nel 1974 pochi minuti dopo il fischio finale del signor Taylor in quel pomeriggio, da leoni, del 7 luglio. Lì, in quella immagine c’è tutto il mito del tempo che fu, con Beckembaur, Maier, Breitner e Gerd Muller e a pochi centimetri Cruijff, Neeskens, Rep, Krol di umore diverso. La nostra generazione ricorda bene, l’ha vissuta in pieno quella storia. Beckenbauer spesso ricordava la sua più dolora sconfitta in quella finale del 1966 a Wembley davanti alla Regina Elisabetta, quella ingiusta sconfitta decretata anche da un errore arbitrale che ancora fa piangere i tedeschi. Vinsero gli inglesi ai supplementari accompagnati dall’ ira tedesca a causa della rete invisibile attribuita all’ inglese Hurst.
Potrebbe finire qui la nostra storia. Ma noi vogliamo andare fin dentro la storia del mito. E se l’immagine iconica fosse infatti quella dell’ Azteca, nella seminale con l’Italia, persa dai tedeschi per 4-3 con la spalla di Franz in frantumi e il braccio destro fasciato fino all’ inverosimile? Non è forse questa la foto più umana del mito? Forse sì. Ma ce n’è un’altra che forse racchiude la vita di Franz. Era il 22 giugno 1974, sempre in quel mondiale tedesco. Quel giorno la Germania Ovest ospitante aveva il cuore spezzato, tra dolore e rancore, tra vergogna e frustrazione storica. Si giocava il grande derby tedesco, Germania Ovest – Germania Est, che finirono insieme nello stesso girone d’apertura come se l’urna al momento del sorteggio volesse cancellare un pezzo di storia, di geopolitica su cui si basava la Guerra fredda.
Quel giorno il destino volle mettere di fronte in una specie di “Kramer contro Kramer”, i fratelli tedeschi separati al fischio d’inizio dalla linea del centrocampo dello stadio di Amburgo, pesante, drammatica, sanguinante, ingiusta come lo era il Muro di Berlino. Fratelli contro. Beckenbauer era tra i tedeschi che la storia descriveva come quelli buoni. C’era dall’ altra parte un certo Sparwasser, sconosciuto a tanti, di nome Jurgen. Quel giorno Jurgen al 77′ segnò la rete della vittoria della sua DDR. Bucò la difesa di Re Franz e scrisse una pagina di storia, forse la più dolorosa, la più drammatica che andava oltre il calcio, fino ai meandri della storia e dell’anima di ogni tedesco. Beckenbauer di quella sconfitta parlò poco, pochissimo, ma non per il pudore calcistico, forse invece per non aprire la ferita (della storia) che portava dentro. Come ogni tedesco. E forse era giusto così. Ciao Franz, riposa in pace.