Per non dimenticare, il triste prezzo che anche lo sport pagò alla Shoah
di Alessandro TeriAttualità27 Gennaio 2024 - 13:48
Attraverso lo sport vengono veicolati i valori su cui si fonda il vivere comune, nel rispetto di ogni singola persona. È così fin dalle origini, da quando nell’antica Grecia i giochi olimpici offrivano una pausa dalle guerre in corso. Ma al tempo stesso lo sport è stato pure utilizzato violentandone la natura, per lanciare infondati messaggi di superiorità razziale, come nel caso delle Olimpiadi di Berlino del 1936. Da lì a poco anche l’Italia si sarebbe macchiata della più grande onta razzista, con l’emanazione delle leggi razziali, che ancora adesso rappresentano una pagina non da dimenticare bensì da tenere ben presente, soprattutto oggi nella Giornata della Memoria, che viene celebrata ogni 27 gennaio.
Una tragedia immane
A non andare dimenticate sono tutte quelle storie emerse nel corso degli anni, che parlano di deportazioni e morte a causa della Shoah, essendo però coscienti del fatto che tante altre rimangono in un immeritato oblio. Ed anche il mondo dello sport pagò il suo triste prezzo alla tragedia immane dell’Olocausto, nell’Europa contagiata o invasa dalla follia nazista. Quindi pure in Italia, dove a partire dal 1938 la violenta campagna antisemita messa in atto dalla dittatura fascista comportò l’espulsione dalle società sportive, a tutti i livelli, degli atleti ebrei.
Un destino atroce
Secondo quanto ricostruito in seguito dalla ricerca storica, sarebbero stati sessantamila gli atleti prima internati e che poi persero la vita nei campi di concentramento nazisti. Tra questi come non ricordare il nome di Arpad Weisz, calciatore ebreo ungherese trapiantato in Italia, che divenne uno degli allenatori di calcio più importanti dell’epoca, vincendo uno scudetto con l’Inter e due col Bologna. All’indomani delle leggi razziali mussoliniane però fu costretto a fuggire insieme alla sua famiglia, trovando temporaneo rifugio a Parigi e poi passando in Olanda, fino alla cattura e l’internamento con moglie e figli ad Auschwitz, dove morì a 48 anni.
La fuga e la salvezza
Accomunato da uno stesso destino fu un altro allenatore di calcio, ebreo di origini ungheresi, che però riuscì a rompere le maglie dell’oppressione nazista: Ernest Erbstein, che in Italia allenò sulle panchine di Bari, Nocerina, Cagliari e Lucchese, fino a quando con l’arrivo delle leggi razziali non fu costretto a lasciare la città toscana per trasferirsi a Torino. Lì inizio ad allenare la squadra granata, mettendo le basi per quello che sarebbe stato il Grande Torino, ma nel 1939 dovette definitivamente fuggire dal nostro Paese, iniziando una lunga peregrinazione in cerca delal salvezza dalle persecuzioni, che lo avrebbe portato prima in Olanda e poi in Ungheria. Ad aiutarlo ci fu lungo questo periodo in cerca della salvezza il presidente granata Ferruccio Novo. Quindi una volta scampato per sua fortuna alla furia nazista Erbstein fece ritorno in Italia riprendendo il suo posto sulla panchina torinese, e scrivendo pagine calcistiche indelebili fino alla tragedia di Superga, nella quale poi morì insieme a tutti i suoi calciatori, portando con sè comunque una storia non interrotta dall’nsensatezza razzista.