Il ricordo di Marco Pantani, e del vuoto che lasciò quel 14 febbraio 2004

di Alessandro Teri

Come uno studente che per fare una ricerca sfoglia un’enciclopedia (non si usa più, ma va bene lo stesso), prima di scrivere un pezzo per commemorare i venti anni dalla scomparsa di Marco Pantani sono andato a ricercare l’articolo con cui l’indomani di quel 14 febbraio 2004 su Repubblica il maestro Gianni Mura dava il suo addio al Pirata. Volevo reimmergermi in quell’atmosfera cupa, riprovare quella fitta al cuore di quando appresi la notizia della morte di un campione che era entrato nella vita di chi lo aveva amato. Personalmente fin dalla prima volta che lo vidi al Tour de France del 1994, ancora con qualche sparuto capello in testa e con indosso la maglia della Carrera. Comunque, era un San Valentino, va da sé, ed era pure un sabato sera, niente di meno indicato per apprendere una notizia così brutta, di quelle che ti lasciano stordito prima di realizzare che davvero hai sentito bene.

Dal paradiso all’inferno

Ciò che si sapeva, nell’immediatezza del ritrovamento del corpo in quel residence di Rimini che nel frattempo è stato pure buttato a terra seppellendo sotto le macerie una verità molto probabilmente scomoda, era solo che Pantani non c’era più, che l’eroe di tante imprese al limite dei suoi limiti non solo non lo si sarebbe rivisto su una bicicletta, peggio, sarebbe diventato un ricordo prima ancora di aver avuto il tempo di dare un degno addio ai suoi tifosi, che erano tanti proprio tantissimi, innumerevoli. D’altronde chi era patito di ciclismo allora, lo era diventato anche grazie a lui, non solo e non tanto assistendo alle vittorie ed alle imprese memorabili che ci ha lasciato, culminate del doppio trionfo prima al Giro d’Italia e poi al Tour de France del 1998, ma perché innamorato del suo andare in bici come un’urgenza, un modo per correre lontano dalle ombre che lo inseguivano. Già prima della maladetta tappa di Madonna di Campiglio del 1999, alla fine della quale scoppiò lo scandalo doping dai contorni dubbi che lo portò tanto a fondo, da non riuscire a ritornare sè stesso nemmeno dopo aver chiuso la porta in faccia a Lance Armstrong in cima al Mont Ventoux nel 2000 (qualcuno dice che l’americano lo lasciò vincere, faccia pure).

Perchè vai così forte in salita?

E giunti qui pago il necessario tributo proprio a Gianni Mura, per il passaggio che più mi colpì in quel capolavoro giornalistico e stilistico che dettò di getto in redazione appena saputo che Pantani ci aveva lasciati (almeno così mi rivelò un collega della redazione centrale di Repubblica che quella tarda sera di vent’anni fa era di turno): «“Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: “Perchè vai così forte in salita?”. E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: “Per abbreviare la mia agonia”». La prima persona di Mura è incommensurabilmente più autorevole della mia, non si pone nemmeno paragone, e lo cito con la massima deferenza, solo per ritrovare Pantani nelle parole di chi lo aveva conosciuto davvero bene, e ne aveva cantato le gesta più belle, nel modo che più ne rendeva la grandezza da atleta, senza scinderla da una sensibilità d’animo tanto profonda, quanto il vuoto che il Pirata ha lasciato e che non sarà colmato da nessun altro che non si chiami Marco Pantani.