Vincolo sportivo e premio di formazione tecnica, cosa c’è da sapere

di Simone Milioti

Il vincolo sportivo come lascia intendere la parola stessa è un obbligo che lega l’atleta al momento del tesseramento alla società che ne detiene il cartellino e ha una durata variabile a seconda della federazione sportiva a cui la società è affiliata. La possibilità di svincolarsi, senza il consenso della società, esiste solitamente in due casi: raggiunta una determinata età oppure passati un numero di anni di tesseramento. Entrambe le possibilità nei dettagli sono differenti a seconda dello sport praticato e quindi delle federazioni di appartenenza.
Nel decreto legge sulla riforma dello sport il vincolo sportivo così come era pensato con tempi oltremodo lunghi viene descritto come una “limitazione alla libertà contrattuale dell’atleta”, e bisogna ricordare che la prima apparizione del vincolo sportivo risale al 1923. Comportava che l’atleta dilettante, già tesserato con una società, non potesse trasferirsi in un’altra operante nella stessa disciplina. Un modo per evitare alle società più ricche di accaparrarsi i migliori atleti. La norma adesso sembra invece non tanto essere uno scudo contro situazioni del genere, ma sembra sia diventata limitante per chi voglia cambiare.
In un mondo che di suo cambia costumi e abitudini anche piuttosto repentinamente e con sempre più proposte societarie a differenziare, chiamiamola così, l’offerta, la nuova legge sulla riforma dello sport abolisce tale vincolo che potremmo considerare un po’ anacronistico. Ovviamente questo non avviene e avverrà dall’oggi al domani ma alle federazioni viene lasciato il tempo di conformarsi alla nuova norma e per questo alcune federazioni lo hanno prorogato.

Per chi il vincolo è dannoso

Va specificato che spesso il vincolo è più stringente per atleti dilettanti che per atleti professionisti. Per quest’ultimi la situazione è più chiara e spesso risolvibile anche in virtù della legge Bosman. Nata da una sentenza che riguardò il caso di un calciatore in scadenza con una società che aveva preso accordi per trasferirsi in un altro campionato con un altra squadra. Al ché la squadra da cui era in uscita chiese un indennizzo alla squadra verso cui sarebbe stato in entrata per lasciarlo partire. La richiesta era nelle facoltà della società secondo il regolamento vigente, ma portò al non trasferimento e successivamente Bosman fu messo fuori rosa. Una situazione che gli cagionò un danno non potendo neanche tornare a giocare per la sua società di appartenenza.
In questi casi di professionisti si pensa comunque ad atleti che hanno sottoscritto dei contratti e che vengono comunque pagati per le loro prestazioni. Il vincolo sportivo invece paradossalmente colpisce, assoggettandoli alle società che possono esprimere l’ultima parola sullo svincolo del cartellino, quei giovani dilettanti, spesso anche minori, che non fanno della pratica sportiva il loro lavoro ma magari un semplice hobby e praticano lo sport come amatori.
Motivo per cui secondo alcuni avvocati il vincolo sportivo limiterebbe delle libertà dell’atleta in quanto non potrebbe praticare senza difficoltà la propria attività agonistica e in quanto persona perché non avrebbe la libertà di associarsi, sancita dalla costituzione, o anche dissociarsi liberamente. Non avrebbe il diritto ad una parità di trattamento e quindi non sarebbe uguale ad altri venendo meno anche il dovere costituzionale di assicurare allo stesso nessuna discriminazione. Infine, nel caso della minore età dell’atleta, esiste anche il diritto al gioco che dovrebbe portarlo a scegliere liberamente le proprie attività ricreative.

Per chi il vincolo è un’assicurazione

L’altra faccia della medaglia è che una società in un certo senso patrimonializzi i suoi atleti e quindi quegli atleti hanno un valore che nei fatti poi viene riconosciuto tramite un indennizzo. La famosa compravendita di atleti professionisti ne è un chiaro esempio nel calciomercato. La società ha cresciuto o dandogli spazio fatto esplodere un talento e quindi è giusto che questa sua scommessa vinta venga ricompensata e sarà la società che lo vende a decidere il prezzo, spesso anche in modo da far desistere l’altra parte.
È ovvio che il discorso per gli atleti dilettanti sia molto diverso, specie nei casi in cui è lo stesso atleta, tramite i genitori, a pagarsi la formazione e quant’altro. Dunque, per evitare l’assalto agli atleti delle società più ricche, e permettere allo stesso tempo la libera circolazione di atleti, si arriva, nella nuova riforma per danneggiare meno possibile le società, all’introduzione di un Premio di Formazione Tecnica (PFT). Si badi bene l’ammontare dell’indennizzo in questo modo è regolamentato secondo specifici parametri e quindi si evitano situazioni in cui una parte spara alto per far desistere l’altra.
Nel caso di un nuovo tesseramento la società che accoglie l’atleta è tenuta a pagare un premio di formazione tecnica alla società o alle società che hanno appunto formato l’atleta fino a quel momento. Si tratta in pratica di una sorta di indennizzo che ovviamente ogni federazione deve disciplinare ma che di base conta due fattori: durata di tesseramento, si va a quantificare quanti anni un atleta ha passato in quella società prima di trasferirsi; in secondo luogo si vanno a considerare i risultati ottenuti, che a seconda della federazione può dipendere dal tipo di campionati disputati o semplicemente “pesare” i risultati ottenuti in caso di sport individuale. In quest’ultimo caso chiaramente più saranno prestigiosi più ne aumentaranno il valore dell’atleta e di conseguenza il premio da corrispondere alla società.

Non scenderemo ora nel dettaglio di determinate discipline perché ogni federazione come detto è stata libera di regolamentare queste nuove direttive sul vincolo sportivo e premio di formazione tecnica. Così tra chi proroga e chi ha già pensato ad un nuovo regolamento con criteri diversi da altre discipline si rischierebbe di fare confusione.