“il nuoto sincronizzato è uno sport da femmine?” Riflessioni sullo sport e le differenze di genere

di Silvia Console

La notizia di qualche giorno fa del titolo italiano di nuoto sincronizzato singolo vinto da Giorgio Minisini a Riccione è stata accolta da tanti come una “svolta” nel mondo di questa disciplina e dello sport in generale.

Da qualche anno ormai siamo abituati a vedere le coppie miste nel nuoto sincronizzato e Giorgio, figlio d’arte dell’ex sincronette Susanna De Angelis e del giudice Roberto, ci ha già regalato uno splendido oro a Budapest nel 2017 con Manila Flamini.

Questa volta però il sincronetto di Ladispoli ha vinto l’oro assoluto, ai campionati italiani di nuoto sincronizzato, battendo con 89,133 Marta Murru. Sì perché dal 2015 la categoria uomini è stata accorpata a quella delle donne e quindi fanno classifica unica.

Come spesso accade, lo sport è lo specchio della società in cui viviamo e a tal proposito mi piace condividere due spunti di riflessione che nascono proprio da questa vittoria di Minisini.

La prima riguarda il voler/dovere sconfiggere i pregiudizi e le offese della gente; infatti da quando Giorgio (all’età di sei anni) ha iniziato a fare questo sport, si è sempre sentito dire che “il sincronizzato è uno sport da femmine”. Nonostante ciò, si è allenato con impegno, giorno dopo giorno fino ad ottenere i successi meritati. Ma c’è di più, un Campione è tale quando lo è anche al di fuori dei campi di gara e Giorgio Minisini lo ha dimostrato: con la sincronette Arianna Sacripante, affetta dalla sindrome di Down, ha partecipato al ventisettesimo Para Sincronized Swimmig Festival che si è svolto il 13 maggio a Kyoto in Giappone, ottenendo il miglior punteggio della manifestazione. Questo risultato è stato possibile grazie al progetto Filippide ( di cui Giorgio fa parte ), un’associazione nazionale che ha realizzato un progetto sportivo per i ragazzi con sindrome autistica ed ha aperto dal 2016 un’accademia di nuoto sincronizzato per atlete con sindrome di Down, ed alla Federazione Italiana Nuoto.

La seconda riflessione nasce dalla domanda che spontaneamente la vittoria di Giorgio Minisini mi ha suscitato:

È giusto che un uomo gareggi contro una donna e viceversa?

Premesso che ci sono sport dove la differenza di genere non conta, penso ad esempio agli sport equestri (come il vernissage), ci sono altre discipline in cui forza ed esplosività, quindi con una componente fisica importante, possono influire molto sull’esecuzione di un esercizio; ebbene, in questi casi, ha senso fare “classifica unica”?

Ne ho parlato con Aurora Ferreri, Responsabile del dipartimento diritti e politiche di genere del PD Palermo.

Aurora Ferreri

Aurora, è evidente che anche nel mondo dello sport le donne devono fare i conti con delle situazioni in cui la parità di genere non viene rispettata. Basti pensare, come dicevamo prima, alle situazioni in cui se una donna riesce a raggiungere un risultato particolarmente positivo in una disciplina solitamente considerata appannaggio maschile, l’atleta deve sottostare a controlli antidoping o di accertamento del sesso, spesso molto invasivi, per accertare che le sue prestazioni fisiche non siano alterate.

Per non parlare dei casi di disparità salariale che le donne subiscono anche in ambito sportivo, soprattutto in quelle discipline e in quegli sport in cui sono le squadre o gli atleti maschili ad avere il maggior risalto mediatico, primo fra tutti il calcio.

Oppure in quei casi in cui donne e uomini gareggiano insieme, non tenendo conto delle differenze fisiche che determinano le prestazioni di un atleta.

A questo proposito, lottare per la parità di genere, significa forse negare che esistano delle sostanziali differenze fisiche tra uomini e donne?

“Assolutamente no, lottare per la parità di genere significa ricevere il medesimo trattamento da parte di chi organizza le competizioni, da parte dei massi media e dagli sponsor. Significa rispettare le differenze di genere e avere gli stessi diritti civili.

In un contesto pandemico come quello che stiamo attraversando, non mancano i divari anche legati allo sport. E torniamo al calcio femminile: alle calciatrici non è ancora stato riconosciuto lo status di professioniste, cosa che ha generato non pochi problemi nella gestione della ripartenza del campionato in piena pandemia. Secondo una delibera della FIGC ciò avverrà a partire dalla stagione 2022-2023. Senza la pandemia, forse, il calcio femminile sarebbe rimasto categoria dilettantistica e non professionistica per molto tempo.

All’interno di un contesto familiare, poi, le donne non solo possono contare su contratti spesso precari, ma guadagnano in media il 20% in meno rispetto ad un uomo, a parità di mansioni. Il loro lavoro, quindi, con i figli in DAD e con gli anziani di cui prendersi cura, risulta spesso il più sacrificabile. Di conseguenza, il tempo che una donna riusciva a dedicare allo sport in condizioni normali (tempo il più delle volte trovato con fatica) adesso risulta quasi del tutto inesistente, aggiungendo questa alle tante rinunce che una donna deve fare nella gestione del proprio tempo.

Il divario di genere nello sport, quindi, risulta strettamente interconnesso con le problematiche femminili a livello lavorativo, economico e sociale e, per appianarlo, ci vogliono specifiche e soprattutto concrete politiche di sostegno e rilancio del lavoro femminile, di decontribuzione, di riconoscimento del lavoro di cura, di abbattimento del divario salariale. Si tratta di una vera rivoluzione culturale che le donne non possono combattere da sole. Infatti, avere il sostegno di politici e amministratori attenti e sensibili a queste tematiche, come l’Assessore allo Sport del Comune di Palermo, Paolo Petralia, o lavorare insieme a diversi uomini nel mio dipartimento, danno la certezza che l’obiettivo è sicuramente raggiungibile”.

Paolo Petralia Camassa