Storie di campioni dimenticati

di Annamaria Mangiacasale

Lo sport ci racconta le storie dei grandi campioni, quanti però vengono dimenticati e i podi raggiunti, i sacrifici fatti, le vittorie conseguite valgono poco più che il tempo di uno sguardo fugace. Eroi maledetti, uomini ombra, o meglio, in controluce, le cui vite lo sport non ha sempre tramandato come avrebbe dovuto.  

È il 30 Maggio 1984. La Roma dello scudetto sta per entrare in campo, i giocatori nel sottopassaggio sono come gladiatori attesi allo scontro decisivo. Tra questi, il capitano: Agostino Di Bartolomei. Nome di battaglia Ago o Diba. Il suo ingresso sul terreno di gioco e sottolineato dai tamburi battenti, dai cori dei tifosi che si trasformano in boato, immaginando già le sue punizioni gonfiare la rete avversaria come missili. Ago entra imperturbabile e fiero, il suo nome riempie gli striscioni della curva SUD. Sarà lui che quella notte porterà in vantaggio la Roma contro il Liverpool, rendendola Campione d’Europa per 55 secondi. Quella sera si conclude la sua vita da giocatore della Roma. Il rapporto si interrompe bruscamente. Diba gioca per tre stagioni al Milan, poi al Cesena e conclude la sua carriera nella Salernitana. Da lì inizia una rapida discesa verso un buco nero, nel quale giorno dopo giorno scivolerà verso la fatidica data che raccontando di un inizio, ci conduce verso la fine. 

30 Maggio 1994. Agostino Di Bartolomei. Nome, Cognome e stop. Non più Ago, non più Diba, non più Capitano, né gladiatore. Nessun appellativo accanto al suo nome, se non quello pesantissimo di “EX”, la qualifica di ciò che non si è più. 10 anni esatti dopo la finale di coppa, il campione alza la mano, ma non più per salutare la Curva. Si alza dal letto, apre un cassetto ed estrae una delle sue pistole, una Smith e Wesson calibro 38, preme il grilletto e spara un colpo dritto al cuore. Un istante drammatico e fuggente, che ci restituisce un uomo solo, prigioniero dei ricordi. Non più i cori della curva, ma solo i fantasmi del passato. La storia di chi vede sgretolare i progetti futuri, estraneo a quel mondo a cui ha dato tutto e che non lo vuole più “dentro” . 

Scattante, veloce, drammatica. Una corsa, così come la vita di Manlio Gelsomini. Undici secondi netti sui cento metri; era il più veloce di Roma. Il fulmine del Duce che morì Partigiano.

Manlio Gelsomini
PH Archivio FIDAL

A seguito di un episodio che lo fa ben apparire agli occhi del Regime, viene premiato dallo stesso Mussolini. Il 15 luglio del 1932 si laurea in medicina. Il centro della sua attività diventa il quartiere romano di San Lorenzo, dove lavora per alcuni mesi con un giovane medico ebreo. Forse a causa di questa amicizia, nel 1941 viene depennato dall’elenco dei medici. Non è ben chiara tutt’oggi la data in cui Gelsomini ruppe con il fascismo. Probabilmente non si trattò di una decisione frutto di un lungo percorso, ma accadde tutto come nei sui sprint. D’improvviso l’Ufficiale del Battaglione delle Camicie Nere non esiste più e addirittura Manlio utilizza i soldi ricavati dal brevetto di un farmaco per sostenere la lotta partigiana; diventa un leader, opera con il nome di Ruggero Fiamma. Una spia lo tradisce mentre va ad assistere un ferito e viene detenuto in via Tasso per 76 giorni di torture al termine dei quali verrà portato alle cave sull’Ardeatina nel 1944. Trentasette anni sono forse pochi per una vita, eppure Gelsomini riuscì in così breve tempo a conciliare la gioia delle vittorie agonistiche, gli affetti, la passione per la professione e, infine, l’impegno civile che lo portò a coronare, seppur a costo della vita, quel sogno di libertà irrinunciabile che inseguiva sulle piste di atletica. A Roma ci sono quattro lapidi che lo ricordano; sono state organizzate corse ciclistiche e riunioni di atletica a lui dedicate, ma esauritesi nel corso degli anni. La sua rimane una storia poco conosciuta rispetto ad altre, ma quegli undici secondi verso il traguardo devono ricordare a noi quanto è lunga e ardua la strada verso la libertà. 

 

 “Un uomo non muore mai se c’è qualcuno che lo ricorda.” (Ugo Foscolo)