L’eroismo negli sport individuali Parte I
di Annamaria MangiacasaleAttualità15 Febbraio 2022 - 13:03
Gli sport individuali per entrare nella storia hanno bisogno non soltanto di uomini, ma di luoghi che li rendano epici. Il luogo diventa il mezzo attraverso il quale l’atleta supera sé stesso, realizza la propria diversità. Una sfida nella sfida, in cui senza sapere neanche perché, l’uomo decide di spingersi oltre diventando, a volte in maniera inconsapevole, leggenda.
Ma cosa rende un eroe tale ai nostri occhi? Come emerge dalle storie che andremo a raccontare, a volte sono gli eventi affrontati a far mutare l’identità dell’uomo. Venire “investiti” da accadimenti che non possiamo evitare, rende in qualche modo dei “prescelti”. Altre volte è la combinazione che si instaura fra fragilità e doti eccezionali.
Spesso siamo portati però a considerare solo gli aspetti positivi dell’essere eroe: fama, successi, trionfi. Ciò di cui invece non teniamo conto è la solitudine, il rischio costante di insuccesso. Essere amati e acclamati, ma anche temuti e isolati. Se volgiamo appena lo sguardo indietro alla storia, ci accorgiamo come infatti gli eroi non siano mai del tutto positivi: basta pensare ad Achille, Giulio Cesare, Napoleone . Uomini grandiosi nei successi e negli sbagli.
Tra i luoghi simbolo dell’eroismo atletico possiamo senz’altro annoverare la Foresta di Arenberg. Si trova a Nord Est della Francia. È un tratto di pavé rettilineo, lungo 2400m, dal fondo estremamente irregolare. Fu introdotto nel percorso della Parigi-Roubaix nel 1968. Un anno di rivoluzioni, che ha cambiato molte storie, compresa quella di Jean Stablinski, Joahn Museeuw e della foresta di Arenberg. Stablinski ad Arenberg aveva fatto il minatore quando era solo un giovane immigrato dalla Polonia e ne conosceva ogni pietra. La Roubaix era a rischio in quegli anni: a ogni edizione veniva asfaltato un tratto di pavé e ciò che rendeva caratteristica la gara rischiava di estinguersi. Quando venne spiegata la situazione a Stablinski, capì subito come risolvere il problema. Trovato il pavé, la foresta entra nel percorso ufficiale. Quello fu il momento che cambiò per sempre l’identità di Jean. Da giovane minatore in giovinezza, a ciclista di professione, diventa esploratore di pavé, salvando la corsa più bella da morte certa. La foresta diventa simbolo della natura che resiste al progresso, con le fatidiche strade a ciottoli che vincono le colate di cemento.
Foresta di Arenberg, 12 Aprile 1998. Il gruppo è lanciato. Visto dall’alto sembra quasi un formicaio, che si fa strada attraverso le lame di luce che filtrano dalla foresta. All’improvviso, una calca di gente attorno ad un corridore, interrompe l’armonia di quel filare. Sangue mischiato a fango, urla, paura. Johan Museeuw è atterra con la bicicletta addosso. L’adrenalina lo fa rialzare, ma il ginocchio frantumato lo rigetta a terra. Trascorre quei giorni passando da un ospedale all’altro. La gamba gli viene ingessata per errore e rischia l’amputazione. Sono giorni bui. La carriera sembra spezzata. Pensa al padre che lo aveva iniziato alla bici, alle corse che aveva vinto, alla famiglia, ma mai alla foresta. Tre mesi dopo è di nuovo in sella. L’ostinazione ha avuto la meglio. È il 9 Aprile del 2000; Museeuw continua a spingere sulle gambe, concentrando tutto su quel ginocchio che sembrava perso, fino a vedere il traguardo. Le urla delle persone non più di paura, ma di pura emozione. Alza la gamba al traguardo, per mostrare al mondo il ginocchio intero, simbolo di quel suo destino così speciale.
Al velodromo Museeuw arriva da solo. I suoi avversari lo trovano già sul podio con in mano un cubo di pavé.
Negli anni successivi si rende protagonista di altri sfavillanti vittorie, fino al 2003 che sancisce il suo addio alle corse. Quell’anno cominceranno per lui anche i processi, con relative condanne, per reati collegati al doping.
Nel 2007 ammette di aver effettivamente fatto ricorso a sostanze proibite, nella speranza di continuare a vincere.